Il discorso del Sindaco Giorgio Gori in occasione del Giorno della Memoria 2024

“Buongiorno a tutti. Saluto le autorità, i cittadini presenti, i ragazzi delle scuole e i loro insegnanti. 

Come sapete il 27 gennaio è stato proclamato, per legge della Repubblica italiana, “Giorno della Memoria”, con lo scopo di ricordare lo sterminio degli ebrei avvenuto negli anni Trenta e Quaranta del Novecento e in particolare la fine della Shoah. La data è infatti quella in cui, nel 1945, le truppe dell’Armata Rossa entrarono ad Auschwitz e per la prima volta il mondo si capacitò degli orrori custoditi da quel campo di concentramento. 

Il Comune di Bergamo celebra ogni anno la ricorrenza, perché fare memoria, ricordare e riflettere sulla nostra storia più recente è parte del nostro dovere civile, un impegno che dobbiamo alle vittime di quelle atrocità, alle loro famiglie, e al quale siamo tenuti anche per responsabilità formativa nei confronti delle giovani generazioni.

Musei, biblioteche e associazioni culturali hanno contribuito anche in questa occasione al programma della giornata. Ciascuno ha collaborato alla costruzione di una rete che, attraverso la cultura, coinvolge la cittadinanza nella necessità di ricordare, approfondire e riflettere. 

Da qualche anno – in collaborazione con l’Isrec – abbiamo anche dato vita ad un nuovo progetto di memoria, che consiste nella posa delle Pietre d’Inciampo, collocate davanti alle abitazioni, là dove donne e uomini furono prelevati per essere deportati e uccisi nei campi di concentramento. Lunedì verrà posata una nuova pietra – in questo caso una “soglia d’inciampo” , la prima in Lombardia; “Soglia” perché collocata davanti alla Caserma Montelungo, già Umberto I, per ricordare che quel luogo funzionò come luogo di transito per 850 tra uomini e donne, prelevati alla stazione di Bergamo e poi trasferiti in vari campi di detenzione.

Questo non è però un Giorno della Memoria come i precedenti, credo non sfugga a nessuno. Quanto sta accadendo in Medio Oriente, e di riflesso nel mondo, pesa sui nostri cuori come un macigno, ci fa soffrire e ci preoccupa immensamente. 

Per diverse ragioni. 

La prima, deriva dall’inevitabile associazione con quanto è accaduto in Israele il 7 ottobre: una strage di ebrei che ha richiamato alla memoria la Notte dei Cristalli del 1938 in Germania, che anticipò l’Olocausto. Quel giorno i terroristi di Hamas hanno trucidato 1.200 civili e militari israeliani, tra cui molti bambini e anziani. Hanno mutilato i loro corpi, hanno staccato teste, hanno stuprato e seviziato le donne, e rapito circa 250 persone. Ciò che ad ogni 27 gennaio ci siamo ripetuti non avrebbe mai più dovuto accadere, è accaduto. Per gli eredi diretti della Shoah il 7 ottobre rappresenta il ritorno di un incubo che abbiamo sperato e pregato che appartenesse definitivamente al passato. 

Ma non è l’unica ragione. La seconda – come ha scritto Paolo Mieli - è il tentativo, in atto, di far ricadere sugli ebrei del mondo intero la “colpa” per la successiva ritorsione israeliana su Gaza. 

Su questo io credo vadano dette parole chiare. Io non solo penso che le critiche allo Stato di Israele siano legittime, penso che il giudizio nei confronti del governo di quel Paese non possa che essere il più duro – peraltro condiviso da vaste componenti dell’opinione pubblica israeliana. Israele sta infliggendo alla popolazione di Gaza sofferenze enormi e inaccettabili. Siamo ormai a 25mila vittime tra la popolazione civile stipata nella Striscia di Gaza. Queste sofferenze non sono giustificabili con l’obiettivo di estirpare Hamas da quel territorio. I capi di Hamas stanno altrove, nelle loro lussuose suite di Doha. Così, se guardiamo alla situazione precedente al 7 ottobre, alla politica del governo israeliano nei confronti dei territori palestinesi, non possiamo che solidarizzare con chi a Gaza è stato costretto a vivere nella miseria, con chi si è visto derubare la terra, l’acqua, i diritti e la speranza dai coloni israeliani della West Bank. Lo scorso giugno sono stato in Cisgiordania per un progetto di cooperazione del Comune di Bergamo con la città di Gerico, ho visto e ascoltato.

Ma un conto è la censura, anche la più dura, nei confronti del governo di Netanyahu, altro è l’equiparazione – in voga da anni, su entrambi i fronti politici – tra lo stato hitleriano e quello fondato da Ben Gurion nel 1948. Un conto è una guerra, anche la più ripugnante, in questo caso peraltro originata da una strage di civili, altro – ci ricorda Edith Bruck, sopravvissuta ad Auschwitz - è “lo sterminio programmato di un popolo che non era in conflitto con nessuno, che viveva pacificamente nelle sue città, nelle sue case, prima che decidessero di eliminarlo fisicamente, per il solo fatto di esistere”.

Chi ha pensato – non solo a Bagno a Ripoli: anche a Bergamo, anche a Brescia – di “attualizzare il ricordo dell’Olocausto, convocando di proposito per oggi, nel Giorno della Memoria, manifestazioni e iniziative di protesta contro quello che viene indicato come “lo sterminio del popolo palestinese da parte dello Stato d’Israele” – senza alcuna menzione dell’eccidio del 7 ottobre – non si è limitato ad una impropria sovrapposizione. L’assimilazione contiene qualcosa più grave che un giudizio storicamente insostenibile. Contiene la banalizzazione della memoria della Shoah, la negazione della sua unicità e la diluizione del suo significato. E sminuisce contemporaneamente l’istanza di pace che vorrebbe oggi sostenere. 

Altrove abbiamo visto di peggio. Le centinaia di persone che alcuni giorni fa hanno preso d’assalto la Fiera dell’Oro di Vicenza, molte delle quali travisate e armate di bastoni, non volevano limitarsi a solidarizzare con il popolo palestinese. Volevano far pagare ai tre espositori israeliani – 3 su 1.300 – la colpa di essere ebrei, per questo responsabili dei bombardamenti su Gaza. 

Quando il movimento del #MeToo tace di fronte alle violenze sessuali di Hamas; quando l’università di Cagliari decide di interrompere ogni rapporto con gli atenei israeliani; quando uno dei più famosi cori tedeschi – il Kommerchor di Berlino – decide di eliminare dal proprio repertorio l’oratorio di Händel “Israele in Egitto” perché “non opportuno”, significa che sta accadendo qualcosa di molto preoccupante. 

Succede che si riaffaccia l’anti-semitismo che speravamo sconfitto. Succede che l’anti-semitismo ha rialzato la testa e ritrovato una legittimità nelle società occidentali. 

In molte università americane – scriveva qualche giorno fa Federico Rampini – si insegna che Israele non ha il diritto di esistere “perché è uno stato imperialista e colonizzatore”. 

L’anti-colonialismo assume le forme dell’anti-sionismo, che a sua volta si tramuta in anti-semitismo. E offre drammaticamente il fianco alla propaganda dei regimi autocratici contro le democrazie occidentali. Sono gli ebrei - secondo l’Iran, la Russia e la Cina - a manipolare la politica e inquinare la democrazia attraverso la potenza del denaro. L’Iran che ha come proprio obiettivo dichiarato lo sterminio del popolo ebraico. Putin che ammicca ad Hamas e denuncia le vittime civili a Gaza mentre fa strage di civili in Ucraina. La Cina che sulla rete diffonde video che paragonano gli ebrei ai nazisti. 

Ecco perché questo Giorno della Memoria è diverso dai precedenti, più doloroso innanzitutto per i discendenti di chi ebbe a soffrire le conseguenze della Shoah. Non basta questa volta il monito a non ripetere più quegli orrori, perché essi si sono già ripetuti in un ordine di grandezza fino a ieri inimmaginabile. E’ necessario in questa occasione riaffermare il diritto di Israele ad esistere, come condizione per difesa del diritto ad esistere del popolo ebraico, perché la sua sopravvivenza non è mai stata così in pericolo. Il Giorno della Memoria esige da noi oggi l’isolamento e la messa al bando di ogni forma di anti-semitismo, dalla più esplicita alla più strisciante, poiché essa contiene la negazione della dignità di ogni individuo, il fondamento della civiltà in cui ci riconosciamo. 

E tuttavia, perché questo accada, e non prevalga la spinta contraria, a me pare sia fondamentale e urgente che Israele ponga fine alla guerra. Lo chiedono le centinaia di migliaia di cittadini che in quel Paese sono tornati in piazza per contestare le scelte del governo; lo chiedono autorevoli esponenti delle comunità ebraiche di tutto il mondo. Non si tratta di dimenticare l’eccidio del 7 ottobre, e neppure che tutto questo – compreso il sangue di donne, bambini e anziani palestinesi – è stato voluto, pianificato, ricercato dai capi di Hamas per mandare per aria il processo di pacificazione conseguente agli Accordi di Abramo e ricompattare il mondo arabo contro Israele. A loro, in primo luogo, va attribuita la responsabilità della tragedia che sta vivendo il popolo palestinese. Né può essere dimenticato che nelle mani dei terroristi si trovano ancora più di 130 ostaggi. 

Ma il rischio cui il mondo ebraico sta andando incontro è esiziale, e consiste nella distanza che si sta creando tra Israele e i governi del mondo civile che dovrebbero garantire il suo diritto ad esistere in pace, sancito dalle Nazioni Unite, oltre che nei confronti di fasce via via più estese delle opinioni pubbliche occidentali. Israele non vincerà questa guerra se non anche sul piano morale, ha giustamente scritto Antonio Polito, non senza l’appoggio dell’Occidente. 

Per questo il cessate il fuoco è necessario, e subito dopo l’avvio di una trattativa per la nascita di uno Stato palestinese che riconosca lo stato di Israele. “Coloro che hanno sofferto il turpe tentativo di cancellare il proprio popolo dalla terra – ha detto ieri il presidente Mattarella - sanno che non si può negare ad un altro popolo il diritto ad uno Stato”. 

Serviranno immensi sforzi e nuove leadership, servirà che la forza della democrazia arrivi là dove le armi stanno fallendo. Ma non può essere che questo l’auspicio che vi invito a condividere in questo Giorno della Memoria. Chiunque abbia nel cuore l’impegno al rispetto di ogni uomo e di ogni donna, consapevole dell’aberrazione di cui si è stati capaci nei confronti del popolo ebraico, non può che pregare perché gli eredi della Shoah prendano in mano il loro destino e per primi contribuiscano a determinare le condizioni per una pace duratura.”

Giorgio Gori, Sindaco di Bergamo

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